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La finzione della realtà di Sharon Lattanzi

 Ciao a tutti Sharpyni!

Come state? Spero tutto bene.

Oggi sono qui perché vorrei inaugurare una nuova rubrica dedicata ai racconti e, proprio per iniziare questa nuova avventura, ho deciso di pubblicarne uno mio! Siate buoni con me, ogni consiglio è ben accetto.
Mi raccomando, non vi aspettate racconti sdolcinati o con un bel finale perché non li troverete.
Detto questo, siete pronti? Via!

La finzione della realtà

Di Sharon Lattanzi

«Dimmi cosa hai fatto»  

Chiusi gli occhi e cercai di rilassarmi. Non fu facile, la mia mente ritornò a quel giorno che cambiò per sempre la mia vita. 

Mi ricordo che ero appena rientrata a casa, stanca da una lunga nottata di divertimento. Forse anche un po’ ubriaca. Impiegai non so quanto tempo ad aprire la porta, cercavo di strizzare gli occhi per mettere a fuoco la serratura mentre le gambe mi tremavano e una leggera nausea mi saliva in gola. Alla fine, quando riuscì ad entrare mi ritrovai davanti a quel corridoio scuro che tanto odiavo. 
Non l’ho mai sopportato. 

La sensazione costante di essere osservata non mi ha mai abbandonata, quella casa aveva qualcosa di strano, di oscuro. Non mi sentivo, e non mi sono mai sentita, al sicuro lì dentro. Facendo attenzione a non far rumore, come sempre, chiusi la porta dietro di me e subito l’oscurità mi avvolse. La testa girava, i quadri appesi alle pareti vorticavano e il mio corpo mi stava chiedendo pietà. Dovevo infilarmi subito a letto. Prima di farlo, però, dovevo andare in bagno. Dovevo togliermi quel trucco impiastricciato dalla faccia.  

Iniziai a camminare lentamente verso la meta, facendo attenzione a non svegliare i miei nonni che dormivano nella stanza poco più in là. Il silenzio che mi circondava rendeva chiaro il battito del cuore sfondandomi le tempie. A piccoli passi raggiunsi il traguardo e mi aggrappai allo stipite della porta. Stavo facendo una fatica immane, mi sentivo svuotata, stanca, le mie energie stavano cedendo all’idea di un lungo sonno ristoratore.  

Entrai senza accendere la luce. 
Fu un errore. 
Un grande errore. 

Quel bagno, stretto, lungo e con una grande vasca mi ha sempre messo a disagio. Ricordo che ho cercato di abituare gli occhi al buio senza riuscirci granché ma presi coraggio e chiusi la porta. Sapevo che i mobili alla mia destra avrebbero fatto da appoggio ma non sapevo cosa mi sarebbe aspettato dopo pochi passi. 

Decisi di fare pipì prima di struccarmi e, con un piccolo slancio di coraggio, superai lo specchio attaccato al muro sopra il lavandino. In quel momento, tutti i miei dubbi sull’ipotetica presenza paranormale scomparvero. Con la coda dell’occhio vidi una figura riflessa. Il silenzio era assordante. Mi bloccai. La paura e l’adrenalina mi fecero rinsavire. Sentivo la testa vibrare, il corpo si fece rigido mentre il cuore riprese a battere all’impazzata. 
Cosa avevo visto? 

Ferma e immobile, sentivo il sangue scorrermi nelle vene e alcuni brividi iniziarono a solleticarmi la schiena. Mi ricordo che ho sentito i denti serrarsi e dalle narici iniziò a fuoriuscire una grande quantità d’aria. Non era la prima volta che incontravo quell’ombra, ho sempre pensato che in casa mia ci fosse qualche presenza. Da quando mi sono trasferita qui, con i miei nonni, ho iniziato a soffrire di paralisi del sonno e di ripetuti incubi notturni tanto da farmi dormire con la luce sul comodino accesa. Ma ora lei era lì e sentivo che mi stava osservando, penetrandomi con il suo sguardo fin dentro le ossa.  

Cercai di urlare ma dalla bocca non uscì alcun suono, ero come paralizzata. Non potevo fare niente. Il silenzio, pian piano, si trasformò in un chiassoso brusio, ripetuto, una litania che mai avevo ascoltato prima. I miei pensieri iniziarono a vacillare, stavo combattendo contro “quella cosa” che si stava impossessando di me. D’improvviso sentii come un’enorme energia invadermi, mi accarezzò piano fino a che, mi resi conto, persi il controllo del mio corpo; mi stavo dirigendo, senza il mio volere, verso la camera dei miei nonni.  

Ho un vago ricordo di quando tornai indietro. So solo che percorsi il bagno a ritroso, aprii la porta e mi ritrovai di nuovo nel corridoio. Il brusio si era trasformato in chiacchiera e con tutta me stessa cercavo di non ascoltarlo perché mi stava ordinando di uccidere. Cercai in tutti i modi di fermarmi, di combattere contro quegli ordini osceni.  

Dal corridoio mi ritrovai nella camera dei nonni. Sentivo scorrere sul mio viso calde lacrime perché mi resi conto di quello che stava per succedere. Era come se quella forza oscura si fosse impossessata completamente di me lasciandomi, però, la capacità di essere consapevole di quello che stavo per fare. Una tortura.  

Provai in tutti i modi ad oppormi a quella forza che mi stava spingendo a compiere quel gesto assurdo. Sentivo che voleva ucciderli, eliminarli per sempre dalla mia vita, solo per il gusto di farlo. 
Voleva farmi del male.  
I miei occhi, ormai abituati al buio, si ritrovarono ad osservare quelle due figure nel letto. 
Stavano dormendo serenamente, ignari di quello che sarebbe successo a breve.  

“Forza, che aspetti? Fai il tuo dovere da brava bambina”. 

E alla fine lo feci. Presi un cuscino ed eliminai per sempre le persone più importanti della mia vita. Prima mio nonno, il più forte tra i due. La sua lotta non fu lunga, non se l’aspettava. Mi misi a cavalcioni su di lui e con tutta la mia forza iniziai a spingergli il cuscino sulla faccia. Le sue mani afferrarono le mie braccia in una presa che, a poco a poco, divenne sempre più debole, fino a scomparire. Passai a mia nonna che nel frattempo aveva aperto gli occhi non capendo cosa stesse succedendo. Non le ho dato modo di capire. Con lei è stato più facile, era debole e meno reattiva. 

Avevo appena compiuto un gesto estremo ma non sentivo nulla, solo la mia voce sfociata improvvisamente in una grossa risata.

---

Aprii gli occhi e di fronte a me c’era lei: la mia psichiatra. Dopo aver ritrovato i corpi dei miei nonni privi di vita mi hanno rinchiusa in una REMS, additandomi come pluriomicida. Ma loro non sanno che non sono stata io. Mi obbligano, ogni giorno, a prendere dei medicinali perché sostengono che ne ho bisogno “per guarire”. Guarire da cosa? Io non ho fatto nulla. Ho cercato di spiegare più volte il mio sogno, la voce e l’ubriachezza, ma nessuno mi ha creduto.  

Guardai la psichiatra cercando di mettere qualche parola in fila ma la mia testa non me lo permise. Ero confusa, non ce la facevo più a stare lì dentro. Più passavano i giorni e più mi convincevo che i miei nonni fossero ancora vivi. Io li vedevo, mi salutavano da dietro la porta, ogni giorno, alla stessa ora. E allora, perché continuavano a sostenere che fossero morti? A quale gioco stavano giocando? 
Volevano che confessassi una cosa che non esisteva oppure cercavano di imputarmi qualcos’altro? 

Girai la testa verso quella donna ossuta, sgradevole alla vista. Portava un paio di occhiali su di un naso adunco e aveva una bocca così carnosa che sembrava le uscisse la bava. Con quella cartellina in mano aveva l’aria da professoressa e il suo sguardo di pietà mi dava ai nervi. Con uno scatto mi misi a sedere mentre nella mia testa iniziai a sentire un brusio sempre più ingombrante. Il brusio si trasformò in pochi minuti in una voce insistente. Quella voce. 

“Fallo” mi disse. 

E lo feci. Ridendo.


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